mercoledì 28 febbraio 2018

Gli uomini violenti

"Gli uomini violenti" (Estratto dell'Articolo "LA VIOLENZA E LE SUE FORME DI REATO: un'analisi attraverso il punto di vista psicosessuologico “centrato sulla persona”- di Antonietta Albano e Francesca Carubbi. Pubblicato su "Da Persona a Persona - Rivista di Studi Rogersiani, giugno 2011, pp. 283 - 297)
Per ciò che concerne la tipologia degli uomini violenti o maltrattanti, a differenza di quello che si potrebbe immaginare, nella maggior parte dei casi, ci troviamo di fronte a uomini “normali” (Baldry, 2005), ovvero a individui che hanno una vita sociale normale, relazioni amicali e lavorative soddisfacenti: uomini insospettabili, provenienti da diversi contesti socio – culturali. Solo nell’8% dei casi questi uomini fanno uso abituale di alcol o di sostanze: in effetti, l’uso di sostanze stupefacenti non spiega i comportamenti violenti. Anzi, sono spesso gli stessi uomini a cercare un alibi per la loro violenza, giustificando il loro comportamento violento con l’uso di narcotici (Crowell, Burgess, 1996). In questo senso, Hirigoyen (2005) raccomanda di non considerare l’alcolismo come sinonimo di deresponsabilizzazione dal comportamento violento: infatti, tutti gli uomini che giustificano la perdita di controllo sono però capaci di tenerlo a bada in società o sul luogo di lavoro. A ciò si aggiunga che, in realtà, il comportamento violento non cessa con il cessare dell’uso di sostanze, al contrario, essendo più lucido, l’uomo maltrattante attua comportamenti violenti più mirati, deliberatamente selettivi (ad esempio, nel caso di violenze fisiche, è raro che l’uomo colpisca la donna al viso, in quanto le percosse lascerebbero segni inequivocabili di riconoscimento), aventi lo scopo di terrorizzare la partner. Come ricorda ancora Hirigoyen (2005), tutti i racconti delle vittime descrivono uomini che diventano irritabili senza motivo apparente. Sono di cattivo umore, si lamentano di aver dormito male e cercano, appunto, un’occasione per giustificare la loro irritabilità, evidenziando come la loro personalità soffra di una profonda ferita
narcisistica: il loro senso di fragilità e il loro senso di impotenza può portarli a voler dominare la loro compagna. In questo senso, si aspettano che le loro partners si prendano sulle spalle il peso delle loro tensioni, colmare le loro insicurezze e placare le loro angosce. Poiché, comprensibilmente, queste donne non possono riuscire in questo intento, esse divengono bersaglio della furia del compagno; in questo panorama, l’atto violento si innesta come un tentativo onnipotente di calmare la propria angoscia annichilente, attribuendo la responsabilità dei propri fallimenti alla donna, che viene percepita come l’unica responsabile della propria infelicità e angoscia esistenziale. In questo modo, il controllo sull’altro colma la loro mancanza di controllo interno. Ma questa angoscia interna è connessa anche alla paura di essere abbandonati: “il loro comportamento violento, in certi momenti, ha lo scopo di mantenere la donna al posto suo, in modo da non sentirsi dipendenti da lei, mentre in altri, quando sono terrorizzati dall’idea di essere lasciati, tentano di farsi perdonare e suscitano nella compagna un atteggiamento protettivo” (Hirigoyen, 2005, trad. it., pag. 126). Inoltre, sempre per il timore di essere abbandonati, gli uomini violenti ignorano che un rapporto di coppia sano abbia bisogno di una certa distanza psicologica, cercando, al contrario, una piena fusione con la partner. In questo tipo di rapporti, in cui i due partner si vivono come un tutt’uno, il minimo cambiamento in uno dei due mette a rischio la vita di coppia, e il partner si sforza, talvolta, con violenza a ristabilire l’equilibrio. Come possiamo notare, si tratta di un problema di “giusta distanza” relazionale: l’uomo violento vive la donna, alternativamente, come inesistente, non prendendola in considerazione, o troppo invadente, sminuendola o criticandola. Troppa vicinanza li spaventa, in quanto hanno paura di essere invasi, mentre, una lontananza percepita troppo grande riattiva in loro angosce abbandoniche. Per trovare un loro equilibrio, questi uomini hanno necessità di controllare, in ogni momento, a quale distanza debba tenersi la compagna da loro. Su questa scia, la conquista dell’autonomia da parte delle donne può essere vissuta da alcuni dei loro compagni come una minaccia alla loro immagine stereotipata di uomini forti, virili e potenti: se l’uomo, in confronto alla donna, si considera troppo fragile, può rispondere in modo violento, sottomettendola".
Copyright: Antonietta Albano - Francesca Carubbi
ACP - Alpes Italia

domenica 18 febbraio 2018


Ieri sera su "Presa Diretta" si parlava di GIG Economy. Una realtà per me, sino a ieri, poco conosciuta. Proprio per soddisfare la mia curiosità ho iniziato a guardare con interesse il programma. Prima di approfondire e tematizzare il fenomeno, voglio partire, però, dalla seguente premessa: la Rete influenza e condiziona le Relazioni Umane, connotandole di immediatezza e poca tolleranza alla frustrazione. In tal senso, app come WhatsApp,  ci mostrano come la comunicazione abbia acquisito caratteristiche di saturazione della risposta: qualcuno domanda e subitaneamente si risponde. E l'aspetto forse più sottovalutato è che non poniamo più una sospensione o una punteggiatura nei nostri stili comunicativi. Diamo per scontato che dobbiamo fornire una risposta in pochi minuti, se non in infinitesimali secondi. E tutto è complicato grazie all sunte blu dell'applicazione: se l'Altro ha letto, perché non mi risponde ?. Da qui, l'amplificarsi dell'ansia per un feed - back non ricevuto. Questa forma di angoscia rispetto all'attesa non colpisce solo i "nativi digitali" (Prensky, 2001), ma gli stessi genitori, che, al contrario, sono cresciuti in un'epoca in cui, a causa della scarsa tecnologia, potevano godere solo di pochi ausili comunicativi, come la telafonia fissa, le lettere o i fax. Tuttavia, è proprio questa pochezza di strumenti che ha consentito, paradossalmente, lo sviluppo della tolleranza all'attesa, ad una sua sublimazione: scrivere lettere, ad esempio, da un lato presuppone la messa in moto del pensiero creativo e delle proprie competenze linguistiche (linguaggio che diviene impoverito, attraverso l'uso di acronimi e di slang, a causa dell'uso degli sms, delle chat e dei Social) e dall'altro, la sospensione inevitabile della risposta, presuppone un so - stare in un'attesa che fa apprendere alla persona l'esistenza di un ritmo nturale di presenza ed assenza (ciò che Freud ha illustrato con il gioco del "Fort - Da" del piccolo Ernst, descritto in "Al di là del Principio di Piacere" del 1920, dove il piccolo riuscì  a traasformare un'esperienza spiacevole, quale quella dell'assenza della madre, in un qualcosa di pensabile ed elaborabile, grazie al gioco del rocchetto che, per sua natura, va e viene). Oggigiorno,  è proprio l'assenza di queste pause, o la loro estremizzazione, a caratterizzare il nuovo mercato del lavoro. Soprattutto quello della GIG Economy, ossia del lavoro somministrato attarverso piattaforme o Start - Up specifiche, che offrono lavoro a chiamata attraverso la Rete. Una di queste ad esempio, è un'app che consente alle persone di candidarsi come autisti autonomi, offrendo la registrazione la portale e l'incrocio di domanda - offerta tra autisti e viaggiatori, prendendosi il 20 % dei guadagni. Nella puntata di ieri sera, l'autista inglese intervistato, spiegando il suo lavoro, poneva l'accento sul fatto che, per ottenere clienti, doveva guidare anche per 12 - 21 ore al giorno, al fine di avere feed - back positivi: nel caso in cui avesse avuto recebsioni negative, sarebbe stato chiamato molto meno rispetto ai suoi colleghi: "Il pensiero di non avere giudizi positivi, non mi fa dormire la notte" (n.d.r.). Queste parole ci dovrebbero far riflettere su quanto, in quest'epoca dove il datore di lavoro è un algoritmo, dove la prestazione e i "Like" ricevuti sono la cartina di tornasole delle capacità di un lavoratore, la Persona tenda a scomparire, o meglio il suo Potere Personale (Rogers, 1977) di scelta libera e responsabile e le sue legittime spinte motivazionali alla'Autorealizzazione (Maslow, 1962) siano mortificate e sacrificate  sull'altare di queste nuove tipologie di assunzioni, che non offrono dei ritmi regolari di "presenza ed assenza" lavorative: ferie, malattie,permessi vari, che consentono di prendere fiato dalle fatica e di poter pensare a progettualità future. Siamo di fronte ad un paradosso: i lavori ad intermittenza, proprio perché lavori a chiamata (oggi si può lavorare 20 ore e domani nessuna), non consentono alla Persona di conciliare, in un'ottica di Promozione della Salute (Zucconi, Howell, 2003), ritmi professionali con la Cura di Sé e delle Relazioni, ma sottopongono la stessa a condizioni estenuanti di frustrazione e di ansia: l'attesa, dall'essere occasione proficua di messa in moto di creatività, progettualità e sublimazione, a causa della sua estremizzazione diviene, purtroppo, il primo ingrediente di uno stato di stress cronico e di scarsa qualità della vita.



© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
www.psicologafano.com

lunedì 5 febbraio 2018

Con – Tatto: abuso, trauma e le condizioni rogersiane dell'ascolto

L'abuso è una violazione. E' fiducia tradita. E' un entrare violento nella propria intimità, senza permesso. Parlare di abuso è molto difficile. C'è ancora un profondo velo omertoso che, spesso, tende a minimizzarne la portata. Minimizzazione o, nel peggior caso, misconoscimento che non facilita la rielaborazione da parte della vittima di ciò che è accaduto. L'impossibilità di un clima accogliente, autentico ed empatico (Rogers, 1957) non permette, altresì, alla vittima di parlare di ciò che ha subito. In tal senso, non è raro osservare che molte vittime, che hanno subito violenze in tenera età, parlino del loro trauma solo in età adulta.
 Ma il trauma non scompare, anzi...Torna, in altre vesti, se possibile ancora più forte di prima: può succedere che la vittima possa ripetere ciò che ha subito e tentare di rielaborare la ferita attraverso una sintomatologia specifica: flash – back, fughe ed amnesie dissociative, vere e proprie somatizzazioni e un iperattivazione dell'arousal (risposte fisiologiche eccitatorie abnormi rispetto alla portata dello stimolo. Ad esempio sentirsi minacciati ed incolumi in situazioni obiettivamente non pericolose). Non rare sono le manifestazioni di autolesionismo e la comparsa di disturbi psicopatologici, come disturbi di ansia e dell'umore, disturbi di personalità (Organizzazione Borderline di Personalità – Kernberg, 2000) e l'abuso e dipendenza da sostanze: tutti tentativi di dare un senso al non rievocabile, alla sopraffazione che irrompe come un lampo a ciel sereno, a vissuti non dicibili o pensabili, come sentimenti di indegnità, vergogna, colpa e rabbia. Chi non può ricordare e dare giusta legittimità a ciò che gli è successo è come se vivesse come un funambolo, che cammina su una corda altissima, in un precario equilibrio, e che rischia di sfracellarsi al suolo. L'unica differenza è che il funambolo conosce il pericolo, quale quello di cadere, mentre la persona abusata ha paura ed angoscia, senza comprendere il perché: la vittima di abuso sa che le è capitata una cosa molto grave, ma non ha tutti i pezzi necessari per mettere insieme il suo puzzle esistenziale, i suoi ricordi. Vive tutto attraverso il corpo e le emozioni percepite come minacciose. Da qui, la persona traumatizzata percepisce la realtà in modo sopraffacente ed impotente (Tardioli, 2010, appunti interni IACP), ossia con scarso empowerment personale (Rogers, 1977) e possibilità di cambiamento. Il tutto, accompagnato da un profondo senso di indegnità.
Come aiutare, allora, queste persone? La persona abusata porta un bagaglio di vissuti profondamente ambivalente: ciò che condanna a se stesso è l'incapacità, all'epoca dei fatti, di non essere riuscito a dire un fermo e deciso "NO!", di non essersi fermato in tempo...insomma di non essersi difeso e scappare. I racconti che entrano in una stanza di psicoterapia sono intrisi di angoscia e perciò è molto frequente che il professionista, che non ha simbolizzato correttamente dentro di lui l'angoscia e la paura rispetto a suddetti vissuti ambivalenti, cada in errori di comunicazione:
- può mostrarsi, lui per primo, ambivalente nella sua arte comunicativa: attraverso la parola esprime un suo vissuto, mentre con il corpo un altro. Ad esempio, senza rendersene conto, può assumere una posizione di difesa o uno sguardo giudicante o, mancando di ascolto empatico, può mettere in campo atteggiamenti salvifici (il terapeuta può colludere con le richieste di urgenza di guarigione o di accondiscendere alla soddisfazione dei bisogni del cliente, magari rendendosi sempre reperibile al di fuori delle sedute, per poi sentirsi defraudato dei suoi confini e, di conseguenza, arrabbiato e confuso, rischiando, in tal modo, di inquinare il setting, privandolo di coerenza, costanza e stabilità (elementi, questi, che mancano alla persona che ha subito un trauma);
- può mostrarsi incongruente, mettendo in atto quelle che Gordon (trad. it., 2005) ha definito barriere di comunicazione, come ad esempio la rassicurazione, che rappresenta una delle trappole più deleterie, per ciò che concerne il pericolo di reificazione del sentire del cliente. Se dico ad una persona che prova senso di colpa, ad esempio, "non è colpa tua", significa che, in primis, sto reificando un suo vissuto degno di essere legittimato ed elaborato ed, in secondo luogo, sto chiudendo un'importante esplorazione che, seppur difficoltosa e dolorosa, può permettere di rendere questa colpa digeribile e meno traumatica. La persona abusata necessita che chi sta davanti a lei sia capace di contenere il suo smarrimento, la sua vergogna e la sua colpa, senza sentirsi minacciata, devastata e distrutta dal racconto. Dire ad una vittima di abuso "Non è colpa tua", è comunicarle la nostra difficoltà a starci in quella colpa, amplificandone ancora di più la portata minacciosa e sopraffacente. E' come se la persona abusata iniziasse a pensare "se il terapeuta mi dice così, significa che ciò di cui parlo è una cosa gravissima. Una cosa talmente grave, da non poter essere ascoltata". Perciò, se l'accettazione o considerazione positiva incondizionata (Rogers, 1957) permette di far percepire alla persona traumatizzata un'accoglienza non possessiva, ma capace di contenere la sopraffazione, l'impotenza, la vergogna e tutto ciò che è intimamente collegato con l'abuso, la congruenza e l'empatia, d'altra parte, permettono un ascolto profondo e non reificante.
Nello specifico, come detto anche sopra, la corretta simbolizzazione dei vissuti permette al terapeuta sia di divenire quella persona degna di lealtà e fiducia nella relazione terapeutica (Rogers, 1961), sia di chiarire e confrontare (Kernberg, 1978; 2010), se necessario, il cliente su determinati aspetti percepiti dal terapeuta, appunto, come non chiari e confusi. L'empatia, d'altro canto (attraverso i rimandi che Rogers e Kinget – 1965 – 66 hanno ben descritto nella loro Opera, quali: riflesso semplice o reiterazione, riflesso del sentimento e delucidazione), consente la comprensione "come se" (Rogers, 1957) dei vissuti di disperazione e di dolore legati al trauma, scongiurando il pericolo di una pericolosa identificazione (quindi di perdita di empatia) con questi ultimi.
Riassumendo, l'abuso è una violazione, un sopruso della propria esistenza: la presa in carico e la relazione terapeutica devono, quindi, essere contraddistinte da fiducia, lealtà, saldezza ed empatia, affinché la persona possa sentirsi liberamente responsabile (Rogers, 1951) di esplorare la sua esperienza, senza interferenze ed ingerenze (comprese quelle di carattere salvifico) del terapeuta. Un ascolto, insomma, attento, delicato e capace, allo stesso tempo, di sostare nell'ambivalenza, nella confusione, nel caos, permettendosi, anche di confrontare il cliente, in modo autentico e senza difese professionalizzanti, su aspetti non comprensibili Un so – stare con – tatto.
© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta
www.psicologafano.com